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DENUNCIA FEMMINILE

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È frustrante pensare che nel 2020 quando sentiamo parlare di “corpo” ci associamo ancora il concetto di “donna”. Preciso che intendere le donne in senso concettuale sia un aspetto importante, perché restituisce l’individualità che troppo spesso, quando si categorizza un gruppo, viene tralasciata e che apre la strada a stereotipi, i quali si materializzano naturalmente in pregiudizi.

 

Simone De Beauvoir scriveva che, a differenza degli altri gruppi e movimenti sociali che si sono battuti per i loro diritti nel corso della storia umana, l’insieme donne non condivide un’etnia, una storia, una religione, uno spazio, e se nel Novecento si pensava che l’unica cosa a rendere le donne tali fossero dei dati biologici oggi, sappiamo che non è necessariamente così.

Come ieri, la differenza sostanziale tra un uomo e una donna si fonda sulla discriminazione sociale, su chi subisce una serie di abusi psicologici, lessicali, fisici, politici e chi li riceve. In passato però, con tutte le limitazioni che ne conseguono, la donna quantomeno aveva dei ruoli da cui si è liberata a fatica ottenendo diritti, ma perdendo, sotto alcuni aspetti, in termini di dignità e di identità.

Nel mondo postmoderno turbo-capitalista, dove tutto è un prodotto da vendere, comprare, consumare e buttare, le categorie femminili sono sicuramente tra quelle più colpite. Sono profondamente convinta che proprio perché non bisogna scadere nel fare “estetica dell’etica” abbia poco senso fare “etica dell’estetica”. Per questa ragione mi generano diverse perplessità, alcune frange mainstream del “body positive”, perché pare che invece di restituire il diritto di poter essere più del proprio corpo ed accettarsi, si impegnino ad allargare il range di ciò che può venir considerato sessualmente attraente o, per contro, che essere belle non sia importante. Penso che sia legittimo per una donna avere piacere nel sapere, in alcune specifiche circostanze, di essere oggetto di desiderio sessuale, ma è ingiusto che questi momenti debbano essere estesi alla nostra intera esistenza. È questo il patriarcato 2.0: possiamo anche non essere madri, mogli e casalinghe ma dobbiamo essere in ogni momento oggetto di desiderio sessuale (salvo poi colpevolizzare le vittime di stupri e molestie).

Lorella Zanardo -femminista italiana- già undici anni fa affrontava il tema nel celebre documentario “IL CORPO DELLE DONNE” in cui spiegava che il discrimine per cui una donna appare in televisione da esperta o da valletta è essere provocante, una caratteristica che in Occidente equivale spesso ad essere estremamente magre. La pressione psicologica che vivono le ragazze da questo punto è altissima. Non c’è da stupirsi quindi se, secondo il Ministero della Salute, in Italia due milioni di persone soffrono di disturbi alimentari e che ogni anno si verificano circa 9000 nuovi casi. In America la situazione è altrettanto triste: l’American Anorexia Bulimia Association ha dimostrato che un terzo delle ragazze dai 12 ai 13 anni sono attivamente impegnate a perdere peso attraverso diete, vomito e lassativi. Non per nulla Fatima Mernissi, sociologa, islamica e marocchina, ha definito “la taglia 42 il burqua dell’Occidente”.

Tuttavia, è interessante notare che questa estrema mercificazione di matrice capitalista e patriarcale stia traboccando: sembra infatti che le aspettative socioculturali in termini di canoni estetici stiano diventando irrealistiche anche per il sesso maschile.

I sociologi Hautoum e Belle dimostrarono nel 2004 che gli studenti universitari che leggevano riviste maschili che presentavano corpi “ipermuscolosi” provavano più degli altri delle emozioni negative nei confronti del loro corpo. Ma non solo: più gli uomini vengono esposti a queste immagini (anche attraverso film e televisione) più apprezzavano la magrezza nelle donne. Paradossalmente sembra che l’ideale di corpo maschile per le donne sia del tutto normale, anche se gli uomini non lo direbbero, e se da un lato le ragazze sono più inclini a DCA, numeri sempre maggiori ci dicono che i ragazzi abusano di steroidi e di endocrina. 

Il problema non è un canone estetico in sé, nonostante il nostro non sia per nulla salutare, ma quando questo criterio mina la nostra unicità: l’ingiustizia della faccenda è che non si è liberi di essere noi stessi ed è il motivo per cui non ho esordito con il cliché “in qualità di donna”, perché prima di tutto sono una persona. 

 

Assodato che la superficialità con cui ci confrontiamo quotidianamente sia innaturale ed invasiva nelle nostre vite, come mai non riusciamo a liberarcene? Come mai non sostituiamo l’accettarci con il piacerci? È davvero così difficile essere contenti di noi stessi? Stiamo investendo moltissime energie per rispondere a dei bisogni che non sono nostri.

Non siamo davvero obbligati a svendere le nostre esistenze su questo mercato, finché possiamo chiamiamoci fuori perché dimenticarci chi siamo veramente ci condannerà a non sapere più godere di nulla.

Sintassi: un albero ed un pezzo di legno, purtroppo, vengono, spesso, considerati nello stesso modo.

Tecnica utilizzata: tecnica mista (olio su carta, elaborazione digitale)

Alessia Piazza
"Un albero cresciuto in un posto sbagliato"
Gaspare Gianduia Grimaldi
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