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L'ARTE AL TEMPO DEL COVID-19

Come ci relazioniamo con gli altri in momenti di crisi? E come ci si relaziona tra noi se la vicinanza ed il contatto possono aumentare la suddetta crisi? Ebbene si entra in un circolo vizioso in cui tutto appare il contrario di tutto. Le nostre relazioni cambiano con il tempo certo, ma se devono cambiare drasticamente per il nostro bene e la salute pubblica la questione acquista tutto un altro senso. Mi preme in questa sede di provare ad immaginare e analizzare come presumibilmente cambierà il nostro rapporto con l’ altro in questo momento quanto mai singolare e provare ad applicare conseguentemente lo stesso ragionamento al discorso sull’arte, con particolare attenzione al modo in cui viene percepita attraverso i social network e nei luoghi d'arte più canonici alla luce dei cambiamenti sociali dell’era post covid. 
 

È necessario partire da una precisazione affatto banale: I nostri rapporti sociali ad ogni livello erano già in procinto di cambiare radicalmente. All'alba del 2020 l’imprescindibile legame tra noi e i mezzi di comunicazione indiretta attraverso soprattutto i social erano un imperativo categorico che la crisi sanitaria di Marzo non ha fatto che rendere definitivo. È vero che la quarantena ha avuto ripercussioni con la crisi ormai lasciata alle spalle, ma è un fatto altrettanto vero che in un paese con un tale livello di arretramento tecnologico come l’Italia, un forzato adeguatamente tecnologico non poteva che fare bene, crisi sanitaria o meno. Se nel privato i social network in primis la facevano da padrone tra giovani e non, l'amministrazione pubblica ed il lavoro in genere tendevano a demonizzare un rapporto a distanza anche se tecnologicamente mediato. Ed è altrettanto ragionevole pensare che la possibilità tecnologica del 2020 abbia offerto forse la sola piccola ancora di salvezza a quella che sarebbe potuta essere, in altri tempi, una catastrofe senza alcuna possibilità di ritorno (possibilità questa tutt’ora non escludibile). Sta di fatto che catapultati spesso a centinaia di chilometri di distanza senza alcuna possibilità di spostamento l'imperativo lavorativo e sociale per evitare la definitiva deriva economica e psicologica del paese vedeva come unica salvezza smart working, classi virtuali e video chiamate. 
Questo “social” si è visto applicato su larga scala e, spesso, come unico mezzo di comunicazione e interazione sociale. C’è il pericolo che questo salto nel vuoto, rappresentato essenzialmente dalla mancanza di scelta in termini di comunicabilità, cambi profondamente il rapporto non solo che intercorre tra noi e gli altri ma anche la percezione che abbiamo dell’altro in generale. Volendo analizzare con più attenzione la questione che più ci preme, cioè il mutare del rapporto tra noi e l'arte, viene da chiedersi anzitutto se questo processo non fosse in atto già da prima e soprattutto come sarà in futuro. 
Sappiamo ora che raramente musei e gallerie, ma più in generale il mondo della cultura tutta , con in testa Università e Scuola, salvo rare eccezioni, erano riusciti a raggiungere il pubblico su social o altri mezzi di comunicazione, un po’ per pigrizia connaturata un po’ per incompatibilità di linguaggio. Come si può fare fruire al grande pubblico un museo o più semplicemente un'opera “antica”, pensata per essere fruita di persona e senza la mediazione di applicazioni o schermi? In realtà la questione non si è mai posta negli ultimi anni come un quesito irrisolto e anzi quegli enti che erano riusciti ad approdare sui network più alla moda non solo riuscivano a comunicare in maniera più capillare con il pubblico utente ma a volte riuscivano a creare forum assolutamente ben riusciti e a generare nuovi impulsi creativi (si vedano i meme come nuova frontiera comunicativa nelle istituzioni e negli enti culturali, la street art e la “net” art). Se ne potrebbe evincere che allora il problema di comunicazione e fruizione, e perciò anche le conseguenze di tale comunicazione su larga scala, fossero almeno per alcuni grandi virtuosi dal punto di vista della communication social dell’arte e della cultura non un particolare cruccio avendo avviato già da tempo una mutazione in termini di approccio e perciò ancora senza particolarmente soffrire il cambiamento, ma sarebbe una semplificazione scorretta. 
Il cambiamento radicale e la crisi scaturita ha colpito tutti, dai più moderni ai più ”antiquati” perché ha messo in crisi la possibilità sottesa di avere un rapporto fisico con le persone e le cose, perciò anche l'opera, e di poter comunicare senza l'intromissione/mediazione di uno schermo. È ora proprio su questa ormai costante presenza dello schermo che vorrei puntare la mia riflessione perché è di vitale importanza a mio avviso per intuire le conseguenze di questo profondo mutamento che avverrà con la percezione dell’arte in particolare. Se è vero che in un museo le regole del buon senso comune vietino il rapporto davvero diretto con la materia artistica è anche vero che una fruizione solo attraverso uno schermo illuminato porti con sé delle prevedibili ripercussioni sia sul modo più generale di percepire e guardare l'arte, nella sua accezione più generica, sia per il modo di percepire e godere di un' opera qualsiasi essa sia. Sebbene sia stato apprezzabilissimo lo sforzo talvolta immane di musei e non solo, di adoperarsi per costruire percorsi virtuali guidati e visite a distanza, e questo è oltremodo lodevole ci tengo a precisarle di nuovo, è imprescindibile desumere che questo comporti dei cambiamenti radicali anche alla futura comunicazione di musei ed enti con il pubblico. Andando in ordine ritengo e auspico che questo abbia almeno in piccola parte aiutato le persone a relazionarsi con una dimensione per natura altra dalla familiarità e allo stesso tempo alta per definizione, in maniera particolare durante una quarantena, immaginando forse pateticamente che una visita guidata possa aver sollevato almeno qualche umore nero. Dall’altro lato la distanza che tuttora si sta giustamente mantenendo nei rapporti sociali e nei luoghi sociali (quali appunto luoghi di cultura e altro) non può che acuire il senso della distanza che già prima si percepiva in generale dall’opera d'arte e dai luoghi che la contengono. Vi è inoltre a mio avviso un' ulteriore questione pregnante degna di nota: l’impoverimento del linguaggio e la progressiva pigrizia del pubblico. L’impoverimento del linguaggio va di pari passo con la commercializzazione esasperata e la necessità, anche qui disperata, di non fare chiudere enti culturali e gallerie nel senso più generale, cercando di buttare dentro a tali luoghi frotte di pubblico talvolta inebetito. Se questo mio timore fosse confermato il risultato sarebbe una pinacoteca alla stregua di un mega store di cartoline e calamite ricordo. A rendere allarmante questa possibile deriva vi è inoltre la peculiare capacità dei social network di appiattire il linguaggio a livelli estremamente pop, il che in tempi normali in cui il rapporto tra noi e l'altro non è così fortemente messo in crisi e soprattutto in cui la percezione visiva non è così strettamente legata alla mediazione innaturale della tecnologia non desterebbe in me tanta preoccupazione, ma vista la situazione e fatte le considerazioni di cui sopra, il sentore che influencer dell’arte radano al suolo lo stetoscopio di relazioni e le complicate vie comunicative dell’arte mi appare, seppur in un'ottica forse catastrofista, un possibile scenario. 
In conclusione mi preme di fare un'ultima considerazione che potrebbe configurare la summa di quanto riportato fino ad ora: Le vere sfide risiedono nella nostra capacità di reagire agli eventi, lasciarsi trascinare come da un fiume in piena non è poi diverso dal lasciarsi affogare. I tempi sono incerti ma le nostre scelte e la nostra capacità di prevederne le conseguenze sono la sola possibilità che abbiamo per non affogare. 

Mattia Cassalini
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