LA MIA PAURA DI SCOMPARIRE
Composizione
Max Littera
Nel suo ultimo saggio “La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite” il filosofo contemporaneo Byung-Chul Han spiega che oggi viviamo in una società della positività, in cui tutto ciò che presenta segno negativo - sia esso un dolore fisico o una pena d’amore, un fallimento lavorativo o un evento disturbante socialmente condiviso, quale potrebbe essere una catastrofe naturale di ampia portata - tende a essere rimosso e scartato perché dannoso alla prestazione - il lavoro - vale a dire ciò che definisce il nostro essere-nel-mondo oggigiorno.
La negatività non deve dunque trovare spazio nel nostro io. Eppure abbonda, sia nel mondo che nella nostra quotidianità. Non è che non vogliamo dare peso al male - certo, c’è sempre una qualche causa che, per un motivo o per l’altro ci tocca più di altre - ma, semplicemente, ci siamo abituati a rimuoverlo e metterlo da parte.
Ci viene insegnato sin da piccoli a cercare di essere felici, una condizione dalle innumerevoli connotazioni. Per qualcuno può essere la creazione di una famiglia stabile e serena, per qualcun altro può essere la realizzazione in ambito lavorativo, per altri ancora può rappresentare l’acquisto di una casa propria. L’essere felici però, qualsiasi sfumatura abbia, in fin dei conti può sempre ricondursi a un unico grande filone. Quello della stabilità. Cerchiamo di mettere, prima o poi, ordine nella nostra vita, sperando di garantirci un futuro solido e prevedibile, con segno “+” e la spia della luce di colore verde, di un verde elettronico sufficientemente rassicurante.
La ricerca di stabilità, tuttavia, dovrà prima o poi trovarsi a fronteggiare un fenomeno che, indipendentemente dal momento, dal luogo e dal modo in cui si manifesti, renderà la corsa alla stabilità, nonché alla vita, vana. È il mistero più certo che abbiamo, la morte. E poco importano i medicinali assunti, le terapie affrontate, le diete seguite o le disponibilità patrimoniali e morali possedute, la morte è fisiologica, naturale.
Questo brutto - e inevitabile - evento rappresenta per me - e tanti sventurati compari - una delle mie più grandi paure. Non so bene in quale momento io abbia cominciato a temerlo, ma qualora vi steste domandando se la vecchiaia possa averci a che fare, beh, non proprio, o almeno non ancora. Ho poco più di vent’anni ora come ora e il problema credo mi affligga da quando di anni ne avevo la metà.
Se varcata la soglia dei dieci anni mi si sono presentati pensieri e paure simili, non pensiate che io abbia avuto chissà quale infanzia, magari di quelle che sono inscritte nelle sceneggiature di film tragici o di romanzi infelici. Sono stata una bambina fortunata, cresciuta negli agi di due genitori che, nonostante fossero separati, hanno sempre fatto in modo che non mi mancasse nulla, ma proprio nulla. Eppure, ho sempre sofferto il fatto che prima o poi avrei dovuto accettare che i miei cari, un giorno, non li avrei più rivisti e che anche io, con il mio mondo e il mio essere-nel-mondo, questa Terra la dovrò abbandonare.
Temo la morte perché è quella condizione che comporta la cessazione di ogni altra condizione. Arriva bruta e infausta, e non sempre si fa sentire. Alle volte sfonda il portone senza permesso, non dando neanche il tempo di cogliere la sua manifestazione. Altre volte si concede il disturbo di avvisare, sebbene la sua cordialità non alteri affatto il messaggio che si porta appresso, ovvero il destino della natura umana. E credo che sia proprio questa sua aleatorietà a togliermi il sonno. Non sono pronta ora, e mai lo sarò.
Mi capita di pensare alla crudeltà del destino ogni tanto, e rimango un po’ sconcertata quando noto che agli altri questo cruccio sovente neanche si pone. Ai più la cosa non preoccupa, perché hanno credenze religiose dalle solide radici, oppure perché hanno già imparato ad accettare il nostro essere umani. E mi infastidisce questa dura legge naturale, tanto più quando viene sminuita e banalizzata, dissolta nel numero del caso statistico.
Per esempio, ricordo che, quando a marzo 2020 la pandemia da Covid-19 era al suo apice e noi completamente disarmati nei suoi confronti, a ogni telegiornale venivano passati in rassegna i numeri dei deceduti, quelli di coloro che si trovavano al momento a dover guardare il Mostro in faccia e la numerosità di coloro che, fortunatamente, il Mostro lo avevano sconfitto. Io ho avuto la fortuna - almeno per ora - di poter leggere di guerre e conflitti dalle enormi implicazioni solamente sui libri di storia. Non sono abituata a sentire il rendiconto di così tanti decessi, non con questa frequenza, e tantomeno con così tanta fredda compassione. Quante vite spezzate, quante famiglie affrante e quante storie che non avranno più il loro protagonista. Eppure, nel sentire questi numeri dal telegiornale, nel leggerli tramite uno schermo portatile o, anche più semplicemente, nell’osservarli nella loro integrità statistica, il dramma si perde. Perde profondità e perde cuore, perché divengono solo numeri, esseri freddi e impersonali.
È triste constatare che una scomparsa faccia male e ci ferisca il cuore solo quando ci tocca da vicino. Gli elenchi dei telegiornali mi hanno portata a riflettere parecchio, e spesso mi hanno rubato il sonno. Mi colpiva la grandezza di quei numeri, e ancor di più mi colpiva la paradossale stranezza di dover combattere l’incertezza e l’instabilità portate dal nemico invisibile dal guscio più solido e stabile che esista, quello di casa mia. Ogni Altro era un potenziale pericolo e non potevamo fare altro che provare a contare su noi stessi. C’era - e c’è tuttora - un nemico. Sai che esiste, ma non sai dove trovarlo. Tutto, al di fuori delle mura domestiche, rappresentava il pericolo. Così, come monadi chiuse - ma connesse - abbiamo vissuto il materialismo della paura stringerci forte forte in casa, con ogni notiziario e ogni news feed pronti a raccontarci che il male c’è, colpisce, e che prima o poi - in quella forma o chissà quale altra - colpirà pure noi.
In quel periodo io faticavo parecchio a prendere sonno. La morte è un fenomeno che mi ferisce al solo pensiero, e le continue “notifiche” di aggiornamento che il Covid-19 mi inviava ogni giorno su quanto il mondo fosse pericoloso, e sul fatto che forse forse non tutto è controllabile -soprattutto il Destino - erano lì a tenere accesa la spia di allarme e paura del mio cervello, a quel punto eccessivamente pressata per potersi permettere il riposo.
Alle volte constato che ad aizzare la mia spia di allarme ci pensa anche un altro semplice e banalissimo strumento, l’orologio. Non sopporto gli orologi meccanici perché, ogni qual volta un secondo di tempo passa, l’ingranaggio si preoccupa di emettere un “tic” per ricordarmelo, e poi ancora un “tac”, per poi ricominciare la sinfonia da capo. Il compito dell’orologio è quello di segnare il tempo, dunque il suono assolve al suo dovere di segnalare l’unità di tempo in continuo divenire. Ma il suo ascolto, ogni tanto, mi mette un po’ d’ansia. Mi ricorda che, naturalmente, al tempo non c’è fine, o almeno fintanto che non arriverà la mia, di fine.
Non posso controllare quel rumore. Non posso controllare neanche il contagio del nemico invisibile, le possibili macchine che potrebbero non vedermi attraversare sulle strisce o gli alberi che, in situazione di tempesta, potrebbero schiacciarmi al suolo. Ci sono tanti, troppi pericoli. Alcuni sono più prevedibili, altri meno. Alcuni sono rimediabili, altri no. Non ho il controllo di chi e di ciò che mi circonda, e lo detesto. Così, il mio radar della paura è costretto a rimanere sempre acceso, con la spia rossa a segnalare i pericoli più prossimi e temibili. E quando cala la notte e il buio ingoia il bagliore della luce, i miei pensieri sono soliti tornare a lei, alla paura, alla morte. A quando il buio colorerà i miei giorni in perpetuo.
Il controllo è in genere prerogativa dell’uomo, una delle aspirazioni massime a cui si possa ambire. Avere il controllo, che bella situazione! Peccato che, nel bene o nel male, il controllo assoluto è impossibile. Il controllo è un atto razionale, di calcolo probabilistico e anticipatore. Richiede calma, sangue freddo e tempo. E, forse, è per questo che ogni tanto invidio i bambini. A loro non è richiesto avere il controllo. Se sono fortunati, hanno un unico compito: divertirsi. Essere felici. Non comprendono tutto del mondo che li circonda e basta loro davvero poco per essere contenti. Ci pensano i genitori a controllare il male per loro, chiedendo in cambio soltanto una coccola ogni tanto. Ma in età adulta, con tutta la necessità di controllo e razionalità che ci è richiesto di esercitare, come possiamo credere di poter essere felici e riuscire a vivere spensierati, nel pieno del nostro spirito?
Io fatico a comprenderlo. Nonostante i miei vent’anni, non riesco ad accettare del tutto che diventare adulti significa rassegnarsi alla razionalità della vita, per necessità e per sopravvivenza. Più cresco, più cose conosco, e meno mi diverto. Mi manca la spensieratezza, ma nel senso letterale: essere senza pensieri, libera. Essere ignara di ciò che mi aspetta, costantemente improntata al mio presente e con un solo, dolcissimo compito. Essere felice.
Ecco perché temo la morte. L’età fanciullesca - il tempo migliore - me la sono ormai lasciata alle spalle. Sto diventando adulta, e mi sono richiesti sempre più calcolo e controllo. La vita si complessifica di giorno in giorno e le lancette dell’orologio, con il loro sinistro tic tac, sono lì a
ricordarmi di secondo in secondo e di minuto in minuto, che il tempo a disposizione per conquistare la mia felicità è sempre più stretto. E la grana più grande è che c’è un enorme, insormontabile problema: io, come tutti, non so quanti giorni a disposizione possiedo ancora per vincere la mia, personalissima, partita della vita.