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MUSICA

La musica nella vita di tutti i giorni ha assunto un ruolo sempre più fondamentale: ognuno la ascolta e ha le sue motivazioni per farlo. Eppure una cosa rimane vera: esiste un denominatore comune a tutti i generi, in altre parole, un filo rosso che unisce Mozart, Beethoven e Chopin a Sfera Ebbasta, Salmo e ThaSupreme. 

Perché? C’è condivisione del linguaggio musicale, che è universale in quanto intrinseco allo spirito umano: che si tratti di uno spartito o di una schermata di un Macbook che scorre, di uno straccio di carta con degli accordi e due parole oppure di una canzone che ancora non esiste, ma che il musicista ha in testa, il concetto che rimane alla base è sempre lo stesso. È un principio estremamente antico, molto più di quanto possiamo immaginare e decisamente misterioso. 

È ciò che chiamiamo tempo; l’opera “Notturno op. 9 n. 2” di Chopin si incastra perfettamente nella sua griglia ritmica, altrimenti non avrebbe senso. Se non fosse così, sentiremmo solo una manciata di note disordinate; sarebbe il caos. Lo stesso vale per un beat dei tempi nostri. Diceva Jean-Baptiste Alphonse Karr: “plus ça change, plus c’est la même chose” ovvero “più cambia, più è la stessa cosa”. Ed è proprio il concetto di tempo che unisce e separa le persone, gli individui in carne ed ossa, con i loro problemi, desideri, vittorie e fallimenti. 

A scuola siamo abituati ad intendere la storia, quindi il tempo, come una linea retta; una cosa astratta di cui non ci importa nulla, che comincia ad un certo punto e che procede all’infinito: noi in tutto ciò partiamo da un passato poco evoluto per arrivare ad un futuro migliore. Non è la realtà delle cose; il tempo esiste e se c’è una cosa sicura a riguardo è che ci ha sempre messi a disagio. Ma quindi in che modo il tempo si collega con la musica? 

Basta addentrarsi un minimo nelle varie nicchie sociali che rappresentano la musica per capirlo. Da un lato abbiamo gli intellettuali al conservatorio, luogo in cui appunto si conserva la cultura, che però hanno un’impostazione mentale per cui è difficile che vadano d’accordo con coloro che magari si trovano inseriti in un contesto di musica underground. 

Allo stesso tempo si tratta di un paradosso: un buon produttore non può ammirare la concezione ritmica di Stravinskij e viceversa, un direttore d’orchestra dovrebbe essere nelle condizioni di comprendere la bellezza di un beat ben fatto, curato nei suoi dettagli con rigore e meticolosità. 

Eppure tutto questo non avviene e rischiamo di avere una società che produce dei veri e propri idioti del mestiere (dal tedesco “Fachidiot”, modo di definire una persona specializzata talmente tanto in un’unico ambito, da diventare idiota appena fuori da quel campo). 

Dove andrà preso il rigore musicale matematico, legato alla musica classica, se i produttori non si interessano al lavoro dei loro predecessori, anche antichi e viceversa e quanto può durare una cultura musicale che non riconosce i suoi figli? 

Bisogna immaginare tutti i grandi, del presente e del passato, nella stessa stanza. Credere che il tempo scorra in maniera dritta dal passato verso il futuro è una superstizione da accantonare quando si parla di cultura. Non c’è mai un sviluppo rettilineo, ma un rapporto di causa ed effetto. Cause sociali, economiche e culturali hanno fatto sì che un Mozart arrivasse in alto, che si facesse un nome; diventare qualcuno dipende da molti fattori. Ma questo rapporto non tocca mai necessariamente il genio; l’umanità ha perso troppo a causa di una cronica chiusura nei confronti del mondo dell’arte in generale. 

Lo stesso Beethoven è stato riscoperto tramite un atto filologico di rivalutazione, altrimenti non si saprebbe chi fosse; e quanti abbiamo dimenticato lungo la via? La musica si organizza in maniera gerarchica e, come in tutte le cose nel mondo dello spettacolo, sono solo alcuni ad avere la maggior parte della fama e del riconoscimento, anche a livello nazionale per esempio. Sono questi individui che con le loro opere creano uno stile che, a seconda del rapporto con la generazione di artisti seguente, viene accettato ed imitato oppure rovesciato del tutto. 

Lo sviluppo della cultura artistica nasce sempre in seno all’incontro/scontro di linguaggi estetici diversi. 

La scena musicale contemporanea non può essere raggruppata sotto un’unica etichetta. Al contempo i vecchi cassetti si sono fatti troppo piccoli per sistematizzare tutto comodamente come una volta. 

La nostra epoca ha prodotto la figura del rapper, che è teatrale, ambiguo e decadente; una riproposizione del decadentismo parigino di Montmartre se non fosse per l’aggiunta dei più importanti elementi contemporanei del consumismo e della spinta alla scalata sociale. Il trapper incarna la cultura novecentesca e non ha mai aperto un libro in vita sua: c’è ironia e verità in questo, perché dimostra che i canoni negli ultimi secoli continuano a far finta di sparire per poi ritornare. 

E visto che le cose seguono l’eco di quelle antiche, possiamo affermare che anche l’hip hop ad esempio, nella sua origine, sia stato un mezzo di comunicazione in un’epoca di segregazione. Sono rinati i cantastorie, è tornata una koinè, questa volta sotto l’egida del mercato globale e della lingua inglese. 

Ne consegue che l’epoca contemporanea potrebbe finire con la rivalutazione del passato antico  e una reinterpretazione in maniera critica, producendo qualcosa di nuovo. È più di una chiamata ad un nuovo rinascimento. Si tratta di far comunicare tra loro due campi di ricerca musicali che finora non si sono mai parlati: quello della conoscenza formale, tecnica e umanistica e quella popolare, non accademica, che crede nell’esperienza individuale più che in quella condivisa. 

Ciò che personalmente vorrei, come musicista, è portarmi avanti anche di un solo passo sulla lunga via, che invoglia tutti a percorrere, che separa l’accademia dal sentire popolare; perché nella musica tutto è permesso, purché si crei un ordine arbitrario. 

Max Littera
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