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PERCHÉ' IL FUTURO CI SPAVENTA

Lo scorso mese di settembre Apple ha annunciato che a partire dal 2022 inizierà a produrre un  modello di iPhone “foldable”. Samsung, in realtà, ha inserito nella sua offerta un prodotto simile  già da un paio di anni, ma ora anche il brand più avanguardista e cool della telefonia vuole  inseguire la strada della novità, passando per le retrovie del passato. Già, perché quando io ero  piccolina e vedevo i miei cugini “Millennial” con il loro cellulare pieghevole, mi immaginavo la Sylvie diciottenne con il suo fantastico telefono a portafoglio in tasca. Ricordo anche che, quando  intorno al 2010 comparvero sul mercato i primi smartphone touch tutti d’un pezzo, rimasi delusa  nel pensare che nel mio futuro non ci sarebbe potuto essere spazio per quel telefono a clip che  tanto mi affascinava.  

 

Tuttavia, ora che Apple e Samsung mi riconsegnano questa possibilità, mi sorge spontaneo  chiedermi che cosa significhi oggi parlare di novità.  

Il settore tecnologico ha inscritto nel suo codice genetico il nuovo e il futuribile, quel qualcosa che, per forza di cose, proprio perché di tecnica si tratta, traina in avanti la società. È tendenzialmente  stato così da quando intorno agli anni ’60 la capacità di calcolo delle macchine ha mosso passi  da gigante, e ha proseguito a quel ritmo in maniera piuttosto regolare - se non incrementale - fino  ad oggi.  

Qualche segno di affaticamento, però, già da qualche tempo il tech lo dimostra: nel 2010 ricordo  l’uscita dei classicissimi “Pokémon Oro e Argento” rivisitati per il Nintendo DS, lo spopolare  dell’app per editing fotografico “Retrica” intorno al 2014, e il drop della Nintendo Classic Mini - una console che richiama i grandi classici dell’azienda nipponica - due anni più tardi. E oggi mi trovo a commentare il ritorno del telefono che si chiude con un “clap”. Il settore del futuro  progetta il nuovo guardando all’indietro, e il vizio, purtroppo, non è solo suo.  

Quella della retromania è una tendenza che si dispiega un po’ in ogni ambito, dalla moda alla  musica, passando per la cultura pop più generale, la cucina e tanto, tanto altro. Abbiamo  nostalgia del passato e il futuro non ci piace.  

Se questo non bastasse a descrivere l’affaticamento del futuro, ecco un altro dato interessante da  notare: quando, per esempio, acquistiamo uno smartphone nuovo, è difficile pensare che possa  durare - in piena salute fisica e “mentale”, in compattezza di hardware e software - per un periodo  maggiore di tre anni. Ecco dunque che il futuro non trova spazio; si programma per autolesionarsi  da solo, per diventare obsoleto già quando è nuovo, di un passato recentissimo. E il dato è  ancora più allarmante se ancorato al sistema moda. Il fashion system è un sistema estremamente  volatile, che già tempi addietro era solito avere un ciclo di rotazione di stock semestrale. Oggi,  con l’arrivo del fast fashion, il turnover è ancora più estremo: si parla di cadenza mensile, se non  settimanale, per aggiornare gli scaffali.

Il futuro congelato è un male caratteristico della nostra contemporaneità e, purtroppo per noi, si è  ormai radicato negli strati più profondi del tessuto sociale. La causa di questa sfiducia non può  essere certo ridotta a un unico mero elemento, ma, forse, un minimo comune denominatore dal quale cominciare la disamina del problema esiste: il neoliberismo. 

Il neoliberismo altro non è che il termine coniato per descrivere l’evoluzione assunta dal  capitalismo nel contesto odierno; un ambiente entro il quale le “shitstorm” si susseguono, dove  l’ozio non conosce spazio e dove tutto - ma proprio tutto - segue la logica del principio  dell’economicità.  

Il potere evocato dal neoliberismo è più intelligente e subdolo del suo predecessore; ovvero il  capitalismo originario, quello del XIX secolo. Le sue leve sono la libertà e il piacere, mentre in  passato il potere si espletava attraverso obblighi e divieti. Il neoliberismo vuole creare dipendenza,  mentre il primo capitalismo operava con la disciplina. Il potere intelligente plasma la psiche, al  contrario il potere disciplinare non aveva alcun accesso ai pensieri o ai bisogni più intimi  dell’uomo. La psiche era una materia opaca e solida, inaccessibile.  

Per riassumere il concetto in maniera un po’ più pragmatica, il neoliberismo lo si può interpretare  come “l’era del like”. Il like è un apprezzamento positivo, uno stimolo che ci spinge ad andare  avanti e ci fa sentire appagati. Lavora sul nostro inconscio e, poco a poco, ci spinge alla nostra  massima ottimizzazione. Sulla scia di questa positività, l’uomo diventa imprenditore di sé stesso,  nel bene e nel male: ora che le figure di lavoratore e capo coincidono nello stesso soggetto,  l’unico limite risiede nella forza di volontà. Non è un caso che a prevalere oggi siano le patologie  psicologiche, come la depressione e il burnout, figlie di un autosfruttamento incessante e sovente  inconsapevole della psiche. 

Il lavoro egemone nel nuovo regime è il lavoro cognitivo, e se nel capitalismo primario vi erano  limiti tangibili entro i quali spendere le proprie capacità lavorative - le strutture fisiche di lavoro e le  ore giornaliere previste dal contratto - oggi il contenimento della propria attività lavorativa diventa  più complesso, proprio perché quei vincoli si sono liquefatti. 

Io, per esempio, sono la prima che fatica a spegnere il cervello per addormentarsi e riscontro  come, in quanto studentessa-lavoratrice cognitiva, le idee e le soluzioni ai problemi mi arrivano nei  momenti e nei luoghi più disparati (in genere mai quelli realmente deputati al lavoro, ovviamente).  Questa condizione di lavoro ininterrotto non caratterizza solo la mia persona, poiché è ormai  divenuto un tratto caratteristico della società, che si è reso ancora più lampante nel periodo di  crisi pandemica entro il quale ci troviamo ancora ad agire.

Se lo stress psichico derivante da questo quadro appena appena tratteggiato non fosse  sufficiente, ecco un altro elemento. La competizione non la giochiamo solo con noi stessi, nello  sfruttarci al massimo per provare a realizzarci. La giochiamo anche con tutti i nostri simili, che  proprio come noi lottano per prevalere sugli altri e vincere il gioco capitalista. Tutti possono  partecipare, e se è vero che dei vincitori pur ci devono essere, io credo che di veri vincitori ce ne  siano pochi. Questo triste gioco ci sta togliendo sempre più cose: la privacy, l’identità, l’ozio, la  calma. Queste grandi tematiche non possono più trovare spazio in un mondo trasparente,  frenetico e senza via d’uscita. Chi stacca la mente-spina è perduto. Game over.  

Infatti, il neoliberismo sta solcando la retta via imbattuta dalla Rete. Il cervello è costantemente  “on”, la velocità segue il ritmo incessante dei social network e la mente è deterritorializzata dal  suo corpo per vivere nello smartphone. Nell’era della connessione parliamo ancora di amicizia ed  empatia, ma lo facciamo nello scialbore espressivo di termini quali follower e condivisione, come  del resto è giusto che sia per un regime che di tattile, lento e passionale conserva ben poco. 

L’uomo è lasciato solo, preda di sé stesso, disilluso di poter contare sui suoi pari e in balia di una  complessità sempre crescente.  

In passato la visione del futuro invocava il progresso della società e della tecnica per un mondo  nuovo che si prospettava certamente migliore e più luminoso. Oggi, però, il futuro è bloccato da  un presente appiattito e ingabbiato, prigioniero del Tempo che gioca a fare il tiranno nel nome del  “Live” tuonato a gran voce dal mondo social.  

Un ruolo cruciale nel compimento del progresso lo ha sempre interpretato la tecnica. Intorno al  XVI secolo l’uomo ha cominciato a mettere sé stesso al centro dell’universo, del suo Tutto. È  quel periodo che chiamiamo “Umanesimo”, e da quel momento natura e teologia, che fino ad  allora si credeva spiegassero il mondo, hanno progressivamente perso terreno in favore dell’uomo tecnico. L’uomo si distingue dall’animale perché in grado di governare i suoi istinti, ed è in questo  senso che lo intendiamo “tecnico”. Con l’arrivo delle rivoluzioni industriali, con i primi cenni di  globalizzazione e con l’irrompere della bestia capitalista, però, la tecnica ha finito per superare  l’uomo, e stiamo ormai assistendo al crepuscolo della cultura umanistica.  

La tecnica ha permeato ogni ambito della sfera umana: persino le emozioni e il pensiero critico -  una volta territorio esclusivo dell’uomo - stanno subendo la riforma tecnica sotto forma di  intelligenza artificiale. Il risultato è che oggi non possiamo neanche più contare su noi stessi,  abbiamo ceduto ogni potere all’Altro, alla macchina. Nel mondo tecno-centrico, in cui ancore  teologiche, naturali e istituzionali non trovano alcun appiglio negli abissi del fondale sociale, e nel  quale gli individui sono isolati e si competono l’un l’altro, il futuro appare lontano e impossibile,  privo di alcuna immagine.

Tornando dunque allo smartphone foldable, ecco perchè stiamo camminando verso il futuro  guardando all’indietro. La fiducia per il nuovo non conosce oggi alcun appoggio solido a cui  afferrarsi e pertanto proviamo a trovare sostegno nella nostra memoria, nonché nel passato,  perché già noto e vissuto. 

Peraltro, in questo caso la tecnica ci è venuta in aiuto. Le possibilità e le strumentazioni offerte  dalla Rete e dalla cultura condivisa e partecipativa hanno fatto sì che oggi il passato sia stato  schedato e immagazzinato a dovere. A pensarci bene, infatti, è accessibile in ogni dove, in tempo  zero e lo abbiamo sempre a portata di click. È grazie a questo archivio globale e digitale se oggi,  attraverso strumenti quali il pastiche, la citazione, il collage e la rivisitazione, ci risulta davvero più  semplice - e assai comodo - progettare il futuro partendo da qui, da ieri. 

Il presente ci offre una complessità indecifrabile. Per di più, reclama la nostra attenzione di  continuo, al ritmo irregolare e insistente delle notifiche dello smartphone. Tempo e spazio  necessari per riflettere non ci sono, perché richiederebbero lentezza e pensiero critico. Purtroppo  per noi, queste voci non corrispondono al filtro capitalista-neoliberista che abbiamo scelto di  spuntare qualche secolo fa.  

Volgendo lo sguardo in avanti si intravedono grigiore e tempeste. Al contrario, avanzando con  moto retroverso, il bagliore del conosciuto ci garantirà sempre un lampione acceso nel buio della  notte. Le incognite del futuro, così, possono farci un po’ meno paura.

Sylive Gyppaz
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