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Cinquantasei giorni nelle nostre gabbie di vetro: cosa ci ha lasciato questo COVID-19

Seduta in un piccolo bar del centro mi gustavo finalmente un bicchiere di vino mentre osservavo la pioggia, un altro di quei piccoli piaceri dimenticati nel corso di questi lunghi mesi. Sorseggiando lentamente e imboccando la mia sigaretta mi imbattei in un articolo di Michele Neri nell'ultimo numero di Vogue magazine, che mi colpì; affrontando il tema del “Cosa si ricorderanno i bambini di questi mesi?” 

 

Io non lo so cosa si ricorderanno i bambini, ma so cosa mi ricorderò io. Inizialmente, come penso gran parte delle persone, ho sottovalutato il fenomeno, e mi sembrava che esistesse solo nei media: accendevo la TV e il mondo mi crollava addosso, uscivo di casa e la vita scorreva normalmente; insomma chi mai si sarebbe aspettato che anche sorseggiare un bicchiere di vino sarebbe diventato un pericolo pubblico? Io, no di certo. 

 

Oggigiorno siamo così anestetizzati dalla costante presenza di notizie catastrofiche che ormai ne siamo abituati, ne siamo diventati indifferenti, convinti che finché non busseranno alla nostra porta non ci riguarderanno mai. Questa volta però hanno bussato eccome: da Cina è diventata Italia e da Italia è diventata casa. Il panico ha iniziato a dilagare come un piccolo spettro invisibile che ha attraversato le vite, le abitazioni, le terre, facendo vacillare quell'invalicabile muro di convinzioni in cui ci eravamo rinchiusi: quel muro costruito sull'idea dell'uomo invincibile, inarrestabile “giudice in terra del bene e del male”, come diceva De André. Potevamo aspettarci di essere annientati da una calamità naturale, da una guerra tra Est e Ovest, da uno scisma sociale, e invece, è bastato un piccolo invisibile virus a bloccarci, come la personificazione di una grande metafora, perché questo virus più piccolo di una scaglia di cenere è l'esatta rappresentazione di ognuno di noi. Noi che ci consideriamo incapaci di cambiare le cose perché troppo piccoli, troppo insignificanti secondo quello che siamo abituati a credere; e invece eccola qui, la verità. Non è la grandezza del singolo che conta ma l'insieme di essi a stravolgere il sistema.

 

Così, la società si è arrestata, le multinazionali si sono fermate, le giornate da 25h sono finite è la nostra apatica apnea è stata interrotta. Questa inchiodata allo STOP, io credo che non solo ci abbia permesso di evitare un incidente ben peggiore, ma ora ci da una nuova possibilità di scegliere la direzione che vogliamo intraprendere. 

Non abbiamo dato la precedenza a ciò che davvero doveva venire prima di tutto, perdendo così “la retta via”. Stavamo dando così tante cose per scontato da esserci dimenticati che la libertà era proprio lì, nelle piccole cose; e abbiamo dovuto perderla per capirlo. 

 

Quello che posso dire io è che quest'esperienza mi ha cambiato la vita. Dopo tanto tempo che fuggivo dai miei problemi, dalle mie verità e dalle mie paure non ho più avuto scampo, mi sono trovata in un vicolo cieco il cui l'unico modo per uscirne era quello di sciogliere quel muro che avevo eretto attorno a me nel corso degli anni, e da cui fuggivo in ogni mio viaggio e in ogni mia abitudine. Solo nella boccia di vetro ho potuto davvero conoscermi come non ho mai fatto prima, cosa tutt'altro che facile, ma che rifarei ancora mille volte; perché mi sono resa conto che le distanze di sicurezza le abbiamo prima di tutto dentro di noi e che spesso sono ben di più di un metro. Il tema iniziale di questo articolo era proprio “la distanza”, ma la distanza è relativa, perché forse, la verità è che non siamo mai stati così vicini. E' vero ora ci si può salutare solo con gli occhi e con il dubbio di aver rivolto il saluto alla persona giusta; ma prima quegli occhi neanche si incrociavano; si scorrevano affianco come su binari di ferrovie differenti, evitando ogni contatto, abbassando le leve per evitare lo scontro. 

 

Ho iniziato questo discorso inserendo la domanda di “Cosa si ricorderanno i bambini?”, ma la verità è che qui siamo stati tutti bambini: ci siamo creati i nostri amici immaginari per avere compagnia, abbiamo costruito universi paralleli per sopravvivere alla noia, abbiamo illuso la nostra mente per sfuggire dai confini troppo stretti. Come i cuccioli abbiamo pianto, ci siamo lamentati, ci siamo nascosti, abbiamo fatto i capricci ma abbiamo anche capito di quanto poco basti per avere tutto, di come abbiamo bisogno degli altri per sopravvivere e che non importa cosa fai ma ogni contributo è necessario. Abbiamo iniziato a vedere le persone non sono solo come dei mezzi per raggiungere dei fini, abbiamo iniziato a credere che un abbraccio non lo puoi sostituire con una video chiamata, che non basta cliccare “share” per condividere le nostre emozioni; eppure per un po' ci abbiamo creduto anche noi, per non impazzire. Perché non importa quanti followers se non sappiamo stare bene da soli, e qui siamo stati tutti messi alla prova. Capendo finalmente che non sono gli esami di maturità a contare davvero, ma quelli di coscienza a ridarci la capacità di sopravvivere, di ascoltare, di parlare, di creare, di sperare. Questa quarantena ci ha reso tutti un po' artisti e un po' credenti, obbligandoci credere nel futuro e nel cambiamento senza averne nessuna certezza, facendoci rimpiangere tutto ciò di cui prima ci lamentavamo, rendendolo ora tutto ciò di cui avevamo bisogno: realtà. 

Ed è proprio nella realtà che un altra frase di Michele Neri mi irrompe nella testa: “La pandemia ha evidenziato un fattore che “conoscevamo” e avevamo messo da parte: la morte è reale”. Cosa sia stata la morte durante questi mesi ognuno l'ha definita e l'ha vissuta a modo suo: c'è chi ha visto andare compagni di vita senza poterli guardare, vedendoli contati solo sulle stime dei telegiornali che profanavano i loro legami affettivi ingiustamente. L'uomo ha sempre avuto paura di morire ma ormai la convinzione di riuscire a fare tutto ci aveva fatto credere di riuscire a vincere anche quella; ma ora ci siamo ricordati, come un post-it sul frigo, che si sono cose che non riusciremo a controllare mai, e forse è meglio così. Una volta varcato l'uscio dopo i nostri cinquantasei giorni di clausura, con la mascherina in mano la domanda che tutti ci siamo rivolti è stata -“E ora? E ora cosa succederà?”- e prima di rendercene conto abbiamo già iniziato a vivere nella risposta. 

Ora abbiamo una seconda chance e non dobbiamo sprecarla per la paura di cambiare perché non si può far finta che tutto questo non sia successo, non possiamo far si che la nostra gente sia morta in vano. Non si può ritornare ignoranti dopo aver conosciuto la verità, ed ora, questa è la nostra occasione di cambiare le carte in tavola, perché ci siamo convinti che nulla possa migliorare, allo stesso modo di come eravamo convinti che la nostra fast society fosse inarrestabile e invece l'abbiamo fermata; perché la volontà l'arma più potente che abbiamo. 

E' arrivato il momento di fare un nuovo inventario dei valori per riuscire a stare bene in questa nuova era. Quest'epidemia ci ha obbligato ha ristabilire un ordine nelle nostre priorità: la scalata al potere, i soldi, le proprietà, il consenso degli altri, la supremazia sociale tutte cose che abbiamo venerato si sono dimostrate così superflue e inferiori rispetto: alla salute, alla libertà, al tempo, alle persone e sopratutto alla capacità di stare bene con se stessi, che ora non possiamo più fare finta che non sia così. 

La verità è che ognuno di noi è responsabile dell'infelicità del mondo tanto quanto del suo benessere, perché forse saremmo piccoli ma possiamo fare la differenza e l'omertà e la negligenza non ci semplificheranno la vita. 

Abbiamo avuto i mezzi per sopravvivere a questa situazione, ma adesso è arrivato il momento di utilizzare questi mezzi per correggere ciò che ci ha portato a questo. 

Abbiamo avuto così tanto tempo, abbiamo rivolto così tanti sguardi alle finestre che dovremmo averlo capito: le cose necessarie sono poche e molte di queste non si possono comprare, l tempo non è mai accelerato siamo noi che lo abbiamo imbizzarrito, perché la vita non è “ prime ” e che la pazienza è ciò che realmente dà risultati, aspettare vuol dire avere fede nel futuro e negli altri, che le pubblicità che ci inculcano che va tutto bene e che abbiamo sempre bisogno di qualcosa, mentono; che la tecnologia è un mezzo potente e utile non un universo in cui negare la realtà o apparire per ciò che non si è; che la scuola ha bisogno di rinnovarsi e che non è solo “voti, studio ed esami”, che la politica non è solo la base di ottime vignette satiriche ma è una cosa di cui dobbiamo iniziare a fare parte, perché una buona leadership, qualsiasi essa sia, ci può salvare la vita o in caso opposto distruggercela. Infine, che l'aiuto non arriva dai soldi ma dalla presenza, e che quella presenza non importa da che paese venga o da che condizione economica arrivi o di che orientamento sessuale sia, perché finché c'è, tutti noi e tutto ciò che abbiamo costruito può continuare ad esistere. 

Abbiamo vissuto nello zoo delle nostre case, con le museruole sul volto, lontani dalla nostro branco, potendo comunicare solo con gli occhi; siamo stati animali in cattività, criminali nelle celle, pesci rossi in bolle di vetro; ma la nostra prigionia ha permesso al mondo di respirare. 

Adesso le gabbie si sono riaperte, e con loro spero anche le nostre menti, perché mentre assaporo l'ultimo sorso di vino e la pioggia smette di cadere abbasso la penna, alzo lo sguardo e penso che questa è una seconda chance che solo gli sciocchi si lascerebbero portare via. 

Ora sciamo dalle nostre gabbie, fisiche o mentali che siano, con una nuova consapevolezza. Consapevoli che che le uniche sbarre che ci hanno rinchiusi ce le siamo costruiti da soli.

Sara Andraghetti

RIFLETTI, RIFLETTICI

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